Ricordo della Giornata della Memoria

Voi che vivete sicuri

Nelle vostre tiepide case,

Voi che trovate tornando a sera

Il cibo caldo e visi amici:

 

Considerate se questo è un uomo

Che lavora nel fango

Che non conosce pace

Che lotta per mezzo pane

Che muore per un sì o per un no.

Considerate se questa è una donna,

Senza capelli e senza nome

Senza più forza di ricordare

Vuoti gli occhi e freddo il grembo

Come una rana d'inverno.

 

Meditate che questo è stato:

Vi comando queste parole.

Scolpitele nel vostro cuore

Stando in casa andando per via,

Coricandovi alzandovi;

Ripetetele ai vostri figli.

 

 O vi si sfaccia la casa,

 La malattia vi impedisca,

 I vostri nati torcano il viso da voi.

                                                                                                                               Primo Levi, Se questo è un uomo

Alunni e docenti del Lunardi hanno accolto l’invito di Primo Levi a meditare su ciò che è stato, a ricordare l’orrore dell’Olocausto e lo hanno fatto attraverso la testimonianza composta e a tratti commossa di Alberto Dalla Volta e Cesare Carrara, le cui famiglie hanno conosciuto la ferita atroce della deportazione senza ritorno nei campi di sterminio.

Sabato 29 gennaio, nell’Auditorium dell’Istituto e in molte aule collegate in streaming, studenti e insegnanti hanno ascoltato in assoluto silenzio e con profondo turbamento ciò che accadde tra il 1943 e il 1944 a tre giovani, quasi loro coetanei: Alberto Dalla Volta (omonimo del suo pronipote), Roberto Carrara e Domenico Pertica (rispettivamente padre e zio materno di Cesare).

Il primo, di famiglia ebraica originaria di Mantova, trasferitasi a Brescia nel 1936 e perfettamente integrata nella società dell’epoca, fu studente del liceo “Arnaldo” e poi, dopo l’emanazione delle leggi razziali, del “Calini”. Quando Guido, suo padre, fu arrestato, dopo la denuncia - da parte del socio in affari – delle sue origini ebraiche, il giovane Alberto si offrì spontaneamente di sostituirsi al padre, firmando però in questo modo la propria condanna: entrambi, infatti, furono internati a Fossoli e da lì trasferiti il 22 febbraio 1944 ad Auschwitz. Sullo stesso treno viaggiava Primo Levi. Alla sua penna dobbiamo l’indimenticabile ritratto di Alberto Dalla Volta e il ricordo del loro profondo legame: “Alberto è il mio migliore amico. Non ha che ventidue anni, due meno di me, ma nessuno di noi italiani ha dimostrato capacità di adattamento simili alle sue. Alberto è entrato in Lager a testa alta, e vive in Lager illeso e incorrotto. Ha capito prima di tutti che questa vita è guerra; non si è concesso indulgenze, non ha perso tempo a recriminare e a commiserare sé e gli altri, ma fin dal primo giorno è sceso in campo. Lo sostengono intelligenza e istinto: ragiona giusto, spesso non ragiona ed è ugualmente nel giusto. Intende tutto a volo: non sa che poco francese, e capisce quanto gli dicono tedeschi e polacchi. Risponde in italiano e a gesti, si fa capire e subito riesce simpatico. Lotta per la sua vita, eppure è amico di tutti. “Sa” chi bisogna corrompere, chi bisogna evitare, chi si può impietosire, a chi si deve resistere. Eppure (e per questa sua virtù ancora oggi la sua memoria mi è cara e vicina) non è diventato un tristo. Ho sempre visto, e ancora vedo in lui, la rara figura dell’uomo forte e mite, contro cui si spuntano le armi della notte”.

I loro destini, però, si divisero per sempre nel gennaio del ’45, quando Primo Levi, ricoverato nell’infermeria del campo per scarlattina, vide l’amico andarsene con gli altri prigionieri per l’evacuazione del campo, essendo imminente l’arrivo dei russi. Il padre di Alberto, Guido, era già stato soppresso nel ’44. E’ verosimile che Alberto sia morto, invece, durante quella marcia terribile, nel gelo dell’inverno, anche se i suoi famigliari – la madre Emma e il fratello Paolo – rifiutarono sempre di accettare questa idea, continuando a sperare in un suo ritorno e a vivere nell’appartamento in piazza Vittoria, dove Alberto avrebbe potuto ritrovarli.

Neppure Roberto Carrara e Domenico Pertica, padre e zio di Cesare, fecero ritorno a casa. Entrambi partigiani (attivi prima in un gruppo sul monte Guglielmo, poi come reclutatori), furono denunciati da un delatore e arrestati il 30 settembre 1944. Rinchiusi a Canton Mombello, furono trasferiti a Bolzano e torturati a lungo. Non rivelarono nulla e non tradirono i propri compagni. Caricati anch’essi sui famigerati treni, furono deportati a Mathausen, dove si perdono le loro tracce. Il giovane Domenico Pertica finì nel forno crematorio, come attestano i registri del campo. Roberto Carrara, invece, era ancora vivo nell’aprile del ’45, poi di lui non si seppe più nulla. Alla giovane moglie, incinta al momento dell’arresto del marito, fu pietosamente consegnato un biglietto, trovato tra i binari della stazione di Bolzano, scritto con la matita copiativa sul treno da Roberto, in cui egli esprimeva un ultimo desiderio: che al figlio, una volta nato, fosse dato il nome di Cesare.

E Cesare torna ogni anno a testimoniare davanti agli studenti l’amore e l’orgoglio nei confronti di un padre e di uno zio mai conosciuti, che lottarono coraggiosamente contro il fascismo e di cui una lapide, affissa in via del Carmine n. 39, ricorda la deportazione.

Ricordare per non dimenticare; ricordare per non ripetere gli stessi errori; ricordare perché “il male si può vincere cercando di realizzare ogni giorno il proprio bene possibile” (Luca Guerra); ricordare perché la memoria di questi eroici giovani e del loro sacrificio continui a sopravvivere attraverso altri giovani. E, guardando i loro occhi lucidi, siamo certi che sarà così.

Fausta Francesca Moreschi